Lo zen e il tiro con l’arco

Lo zen e il tiro con l'arco
Lo zen e il tiro con l’arco

 

Lo Zen e il tiro con l’arco
Eugen Herrigel

Ed. Adelphi


 

 

Dopo dieci anni di Aikido mi sono deciso a leggere questo classico che mi era stato da sempre consigliato. Non volevo mescolare alla pratica ed a quanto si evinceva dalla lezione, astruse teorie che potessero influenzare il mio percorso. Il mio percorso, la via del “do”, doveva essere scalfita dalla totale fiducia nel maestro che sceglievo nuovamente quasi ogni volta che andavo a fare lezione, sia che apprendessi poco, sia che apprendessi molto. La lettura è intervenuta dopo che un’amica mi ha ricordato di averle commentato anni prima la visione di “Kung Fu Panda” affermando che l’orso è tondo e si muove scaltramente evitando gli ostacoli, rimbalza e non si fa male, la tigre invece è spigolosa, resta ferma sulle sue posizioni e si fa travolgere dagli ostacoli permettendo che la colpissero in pieno. Così infatti fece un altro spettatore dichiarando che quel cartone era troppo violento, inadatto ai bambini.

Fu così che mi resi conto che nella pratica costante stavo applicando la filosofia mutuata alle lezioni di aikido alla vita reale e concreta che mi si rappresentava innanzi agli occhi, o meglio all’illusione dell’uomo, per parlare nei termini di quella filosofia. Non so se ci sia Zen nell’Aikido, ma sicuramente quanto apprendiamo sulla non-opposizione, sullo spogliarsi di sé stessi e sull’entrare in armonia con il modo circostante era già un mio patrimonio, preesistente, concorrente o confluente nella lezione di questo classico.

L’occidentale che studia filosofia infatti è svantaggiato alla comprensione di questo mondo per la profonda differenza tra i concetti orientali ed occidentali dell’uomo e di tutta la realtà che lo circonda. Per questo è forse giusto sorridere quando si legge che il maestro, nel tentativo di porsi dal punto di vista dell’allievo, aveva tentato di partire dalla sua formazione didattica, per condurlo verso la via, studiando i testi di filosofia che lo avevano formato e vi aveva poi rinunciato, scoraggiato: “Chi studia queste cose, non può capire!”.

Il libro evidenzia correttamente come tutte le pratiche di determinate arti che secondo l’occidentale si compiono con l’applicazione fisica e quindi con il giusto utilizzo dei muscoli, nell’ottica orientale in queste condizioni sono come un cantare strillando e stonando, un suonare pestando, perché l’orientale utilizza la pratica fisica soltanto per applicare un concetto astratto. Esso è intento a forgiare dentro di sé con l’esercizio l’assimilazione di un concetto astratto del quale ha bisogno di fare esperienza.

Così, anche nell’Aikido e nell’arte della spada in genere, a cui viene dedicata una breve parte alla fine, si fa esperienza dei concetti filosofici con un’applicazione pratica. Il gesto inizia col mettere la mano in un certo modo o nell’usare i muscoli in un altro, ma quello equivale solo a preparare la tela da dipingere. Sarà il “come” si esegue la tecnica che farà la differenza.

Quando la modalità sarà del tutto “istintiva”, spontanea, interiore, allora e solo allora, secondo queste filosofie si è in contatto col divino, con quelle energie cosmiche che diventano un dio da onorare. Per questo ad ogni corretta esecuzione del tiro il maestro si inchina, perché ha visto in esso quel soffio del divino che Hueshiba, fondatore dell’Aikido, vedeva nel giusto combinarsi delle energie dell’universo.

Nel testo, il maestro dice che il colpo ‘si’ compie come qualcosa che, create a priori tutte le condizioni necessarie, si verifica da se stesso per il combinarsi adeguato di tutte le energie della natura e dell’universo. In questo si ravvede una dimostrazione del “divino”, ah, quanto diversa dalla personificazione con una volontà sovraumana!

Dello stesso concetto astratto si trovano una miriade di applicazioni pratiche che sembrano sport, guerra, arte del decorare.

E’ molto significativa l’esposizione di come deve svolgere il suo ruolo il maestro con l’allievo, quella presenza solidale al cospetto dei suoi inevitabili e ripetuti errori, a patto che siano frutto dello spingersi verso la propria evoluzione e non già di un modo furbesco di evitarne gli oneri: il peso, la sofferenza, la necessità di concentrazione e parimenti di astrazione da sé, giungendo infine a rinunciare alla missione se l’allievo ricorre all’inganno.

Il maestro non è quello che conosce bene la materia come siamo abituati a concepire nelle nostre scuole: uno che è bravo a fare una cosa non necessariamente riesce a fare evolvere gli altri. Il maestro è la persona che, non perdendo mai di vista il punto dove deve giungere l’allievo gli si pone al fianco, se non dietro, per fargli da guida. Eccettuate le rare occasioni di una dimostrazione della sua arte, che il principiante tende ad imitare con sforzo fisico e quindi provando fatica, il maestro è quello che riesce a mettere in condizioni l’allievo di compiere al suo giusto tempo i suoi passi. …E quando il risultato è frutto di una tecnica correttamente eseguita si tocca il cielo con un dito, come ad annusare il divino e, quanto meno, se non si è in grado di ripetere il gesto in quel modo, si è in grado di rendersene conto. Questa sensazione può raggiungersi se vi è satori, una sorta di intuizione che intuizione non è, un’intuizione prajna che è il tendere all’infinito, dove nell’infinito si ravvede il vuoto, lo zero, l’essere fuori da sé e quindi a contatto col divino.

Nel testo il maestro è quindi quello che oggi chiamiamo un choach che non descrive cosa si debba correttamente fare, ma che conduce l’allievo a quella condizione interna necessaria perché la sua espressione esterna sia corretta. Gli elementi sono sempre gli stessi: innanzitutto la respirazione e quello stato di assoluto che crea il “mu”. Il vuoto. Mukyu in aikido è il privo di grado, in realtà il vuoto di cui stiamo parlando è disporsi come una conca da riempire. Quando si riesce a “fare il vuoto”, quel soffio di “divino” viene a suggellare l’azione compiuta. L’azione è quindi frutto di una lunga ed attenta preparazione, è il compimento di un rito, come ci dice anche l’autore nella disciplina della spada, come nel tiro con l’arco, come nella espressione calligrafica, come nella disposizione dei fiori. Come non pensare che il maestro di Aikido detto Ōsensei esprima l’importanza fondamentale della preparazione al gesto,  Ōsensei deriva infatti da sen no sen: prima di prima.

Il gesto tecnico a cui ci si è preparati riesce in un lampo, prima di essere pensato, sgorga da sé laddove si agisce senza la propria parte razionale e subentra il divino.

In questo senso conosciamo il significato del “superare i propri limiti”, che sono proprio l’intenzione e la volontà e del “superare se stessi”, come di una propria visione del mondo.

Giulio della Valle

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